Come vino per un ubriaco

Vi proponiamo ampi stralci di un editoriale di Luigino Bruni, pubblicato nei giorni scorsi su Avvenire, in tema di lavoro, reddito e cittadinanza.

In queste settimane post-elettorali si sta riaccendendo il dibattito sulle diverse proposte di reddito di cittadinanza e sulle sue varianti. Il confronto è giustamente serio e appassionante, perché tocca cose molto importanti come la povertà, il lavoro, il non lavoro.

Ormai in tutti i Paesi occidentali si stanno implementando forme di aiuto economico a chi per qualsiasi ragione non riesce a produrre un reddito sufficiente per sopravvivere in una forma e in modi minimamente decenti. Ed è una buona notizia. Quindi il dibattito serio non deve vertere sul ‘se’ intervenire, come società politica, in soccorso dei più deboli. Questo dovere etico era ben chiaro ed esplicito già nei primi economisti moderni: «Ogni membro del corpo ha due diritti di esser soccorso dagli altri; il primo de’ quali è quello che gli dà la natura, il secondo quel che nasce da’ patti sociali» (Antonio Genovesi, 1767). L’essere soccorso dagli altri quando si è nel bisogno è insomma, riconosciuto da tempo come un diritto naturale e sociale, e il soccorrere come un dovere.

Le questioni più delicate, controverse e rilevantissime riguardano però come legare questo diritto-dovere legittimo al soccorso (tramite un reddito garantito) con il diritto-dovere al lavoro, ed entrambi alla cittadinanza (o all’essere una semplice persona da soccorrere, non limitando, dunque, gli interventi ai soli cittadini italiani). Qui ci sono due culture che oggi si fronteggiano, ben diverse tra di loro. L’una vede come primario il nesso reddito-cittadinanza; l’altra (che è anche la mia) dà la priorità al binomio lavoro-cittadinanza.

L’ordine logico ed etico tra soccorso-cittadinanza-lavoro cambia in base alla visione che abbiamo della democrazia, del lavoro, della povertà, e in questa algebra sociale se cambiamo l’ordine dei fattori il prodotto cambia moltissimo (…).

Il lavoro sarebbe essenzialmente un mezzo per ottenere un reddito. Questa è l’ipotesi implicita della prima corrente che quindi dà la priorità al nesso reddito-cittadinanza. Ciò che fonda la cittadinanza, si legge ogni tanto, «non è più il lavoro, ma il reddito». Il mondo sta cambiando troppo velocemente, il lavoro ancora di più. Diventa tutto molto incerto e fragile, e subordinare il reddito per vivere al lavoro renderebbe fragile l’intera democrazia. Quindi meglio sganciare il reddito dall’eventualità del lavoro, e associarlo all’essere parte di un patto civile. Così, si sente dire e si legge, usciamo dalla logica mercantile e mercenaria del do ut des, ed entriamo in quello della fraternità e del dono civili e politici.

Se il lavoro fosse soltanto un mezzo per avere reddito, la circostanza storica attuale di un lavoro incerto e fragile porterebbe facilmente e incontrovertibilmente a cercare un altro meccanismo di distribuzione del reddito, e un meccanismo semplice potrebbe essere un ipotetico ‘reddito di cittadinanza’. Peccato, però, che il lavoro è molto più di un mezzo per avere reddito da consumare.

Prima o insieme a questo scopo, il lavoro è almeno altre tre cose:

  • È il cemento della più grande cooperazione che la storia umana abbia mai realizzato nel corso della sua millenaria storia, la società civile ed economica (…).
  • È poi il modo più serio che ho per far fiorire i miei talenti: certo posso farlo in altri modi, ma niente come lavorare dice agli altri e a me stesso chi sono veramente.
  • Infine, il lavoro lega il reddito alla reciprocità: quel denaro mi arriva perché ho saputo fare qualcosa in cambio. Ci sono poche cose più belle e degne del do ut des nel mondo lavorativo. Perché se sgancio il reddito dal mutuo vantaggio tra me e gli altri per cui lavoro, si perde il senso profondo di quel denaro che mi arriva nel conto corrente (…).

Non occorre poi dimenticare che le povertà – ogni povertà, compresa quella lavorativa – non sono una faccenda di flussi (redditi), ma di capitali, come ormai Amartya Sen e i migliori studiosi del tema ci dicono da decenni. In genere, si è poveri perché ci mancano capitali educativi, sanitari, sociali, relazionali, familiari, una carenza di capitali che si traduce poi in carenza di flussi (redditi). Se allora non ‘curo’ i capitali delle persone e mi limito ad agire sui flussi, mi ritrovo semplicemente con un povero con qualche denaro in più, che spesso finisce nei luoghi sbagliati. Diceva a questo proposito Melchiorre Gioja, duecento anni fa: «La beneficienza senza discernimento non è virtù ma debolezza: dare denari ad un giocatore è dare del vino ad un ubriaco o una spada ad un furioso» (…).

Un tratto che accomuna un po’ tutte le proposte in campo su questi temi, è l’individualismo. Si vorrebbe, cioè, provare a curare una malattia così complicata e cronica con il solo ‘medico di famiglia’, senza i team delle operazioni chirurgiche complesse. Il grande assente nel dibattito è il ruolo della società civile. Quando negli anni Novanta del secolo scorso dovemmo affrontare l’emergenza del disagio sociale diffuso, a quella crisi l’Italia rispose inventando la cooperazione sociale, un’autentica innovazione socio-politico-economica, che tutto il mondo ci invidia e alcuni ci copiano (…). Facemmo nascere (…) cooperative dove la gente lavorava veramente, nonostante i limiti fisici e psichici. E così si sono organizzate in questi decenni decine di migliaia di cooperative, centinaia di migliaia di posti di lavoro.

Pensare oggi di affrontare seriamente i problemi di milioni di persone, lavorando quindi sui capitali e non solo sui flussi, immaginando un rapporto tra Stato e individuo, mediato da qualche funzionario e ufficio pubblico, è semplicemente utopico.

Dovremmo invece favorire la nascita di una nuova stagione di cooperazione sociale. Gli ambiti dove creare lavoro non mancano in Italia, a partire dai beni culturali, artistici, religiosi, turistici, certamente oggi molto al di sotto della loro capacità produttiva. Ma queste soluzioni richiederebbero prospettive di medio periodo, tanto lavoro nell’architettura legislativa, ascoltare l’anima profonda dei territori, coinvolgere seriamente la società civile. In passato, lo abbiamo saputo fare.

Perché non riprovarci?