È finita una storia, non la storia

Investire nei giovani, guardando con realismo il presente, senza rimpianti per il passato, per generare nuove opere e istituzioni che dicano la speranza e la fede nel futuro. Perché «la fede la si incontra nella vita concreta e semplice, toccando la terra, le cose, le persone, i poveri». È la proposta che Luigino Bruni, economista e accademico, lancia in questa intervista, intervenendo nel dibattito sulla crisi della società italiana e sul ruolo della Chiesa.

De Rita sostiene che per un buon governo è necessaria la compresenza di due autorità distinte tra loro: quella civile e quella religiosa, la prima garantisce la sicurezza, la seconda il senso. La sensazione è che la società italiana abbia perso il senso e viva solo della paura della insicurezza, quando forse non c’è stato un periodo più sicuro nella storia del nostro paese. Se questo è il quadro più realistico, quale può essere il ruolo della Chiesa italiana?

La dimensione religiosa nelle civiltà ha offerto ai singoli e alle comunità un orizzonte più largo di quelli politici ed economici che non sono abbastanza ampi per unire i popoli. Nel medioevo la fides era al tempo stesso fede religiosa e fiducia economica e politica, poiché come ricordava anche l’economista Antonio Genovesi nel ’700 fides significava originariamente corda. Quando viene meno l’orizzonte di una fiducia più robusta dei patti politici e dei contratti gli scenari possibili sono essenzialmente due: la guerra di tutti contro tutti (e la storia dell’Europa ce l’ha mostrato nel Novecento), oppure la fiducia commerciale dei contratti tende a diventare l’unico legame sociale, come si sta verificando nel XXI secolo. Ma, lo stiamo vedendo, i contratti senza patti non reggono. In occidente il «patto» per eccellenza è l’Alleanza biblica di cui la Chiesa è erede e testimone. Nello scenario attuale, con un mercato che vuole diventare la forma della vita in comune, la Chiesa deve ricordare almeno tre cose: 1. che i contratti economici hanno bisogno di una alleanza più profonda di natura non commerciale, che consente il buon funzionamento del gioco economico; 2. che il registro commerciale costruisce autentico bene comune se non è l’unico registro della vita civile: una dinamica sociale affidata interamente all’economico diventa troppo fragile e banale; 3. che c’è un principio di gratuità che fonda anche il principio del contratto: abbiamo qualcosa da scambiare sui mercati perché prima abbiamo ricevuto gratuitamente talenti e risorse dagli altri e dalla collettività.

La natura della crisi che da più di un decennio ha messo in ginocchio l’economia delle società occidentali è puramente economico-finanziaria o rivela una crisi più grande, a livello etico-spirituale?

Quella che stiamo vivendo da almeno due-tre decenni è una crisi etica e spirituale profonda, che tocca molte dimensioni legate alla crisi delle ideologie del XX secolo e dei secoli precedenti che le avevano generate. Un aspetto importante e in genere sottovalutato è la natura narrativa della crisi. Con l’inizio del terzo millennio si è terminata l’ultima fioritura di un umanesimo antico e cristiano, talmente radicato che anche chi non era cristiano ne capiva perfettamente i codici simbolici. Nel Novecento, in Italia e non solo, anche chi non era mai entrato in una chiesa capiva e sapeva cosa succedesse dentro, chi non aveva mai pregato Maria e Gesù li conosceva e si ricordava almeno una preghiera e la recitava di nascosto in quei momenti decisivi quando anche chi non prega ricorda una preghiera dei nonni e la recita veramente. La vita e la morte parlavano a tutti, quasi con le stesse parole. Il lavoro (dei campi e nelle fabbriche, il lavoro delle donne) era stato poi quel terreno comune che aveva generato una grammatica e una sintassi delle emozioni e dei sentimenti che consentivano a tutti di parlare e capirsi oltre le differenze di culture, di fedi, di umanesimo. Peppone e Don Camillo litigavano perché parlavano la stessa lingua. Oggi invece quando un giovane passa davanti a una chiesa difficilmente capisce cosa accade lì dentro, quando vorrebbe pregare non sa come farlo perché non ricorda più nessuna preghiera, il suo cuore non è più abitato dai volti e dalle parole dei suoi nonni. E così, quando noi adulti, figli dell’umanesimo del Novecento, quando proviamo a raccontare le stesse storie di ieri, finiamo per dire parole d’amore in una lingua morta.

In questi ultimi anni sembra di assistere a uno scontro tra un sistema economico che è diventato assoluto, quasi divinizzato, e la voce del Papa che appare come l’unica contraddizione al paradigma tecnocratico: esiste una via praticabile per le intuizioni presenti nella predicazione di Francesco? Penso ad esempio alla Laudato si’. Forse è questa critica del Papa al sistema uno dei motivi della grande opposizione anti-papale?

Certamente l’analisi critica del capitalismo che questo Papa ha fatto fin dalla Evangelii gaudium è un fattore importante, forse decisivo, per comprendere l’opposizione che sta incontrando. Ma, se guardiamo bene e utilizzando le categorie giuste, ci accorgiamo che la critica di Papa Francesco è una critica teologica, non economica. Non a caso egli richiama spesso la natura idolatrica del nostro sistema economico. Il capitalismo, infatti, è sempre più simile a un culto religioso, o, meglio, a un culto idolatrico. Questa non è una novità del nostro secolo (basterebbe leggere Max Weber o Walter Benjamin), ma ciò che era già presente nella natura del capitalismo tradizionale, nell’economia finanziaria-consumistica del XXI secolo si sta manifestando in modo sempre più evidente.
Anche guardando semplicemente all’urbanistica delle nostre città, ci accorgiamo immediatamente che l’economia di mercato è cresciuta e cresce grazie al consumo del territorio sacro che, sconsacrato e trasformato in indifferenziato e anonimo spazio profano, è diventato nuovo spazio liberato per gli scambi commerciali. I mercanti sono tornati nel tempio, tutto il tempio sta diventando mercato, anche il sancta sanctorum rischia di essere messo a reddito.
Essendo la religione essenzialmente re-ligio (legare e unire), per distruggere una religione occorre prima minare le comunità e isolare le persone trasformandole in meri individui. Quando viene meno la terra comune della comunità, l’esperienza religiosa inesorabilmente si spegne; oppure diventa un bene di consumo, come sta accadendo oggi, quando nel giro di due generazioni abbiamo ridotto in macerie un patrimonio comunitario e religioso costruito in oltre duemila anni, e dove gli individui senza casa e senza radici sono diventati i consumatori ideali e perfetti. Ci siamo lasciati svuotare di senso e poi abbiamo riempito quell’infinito vuoto con le merci sempre più sofisticate per provare a rispondere a tutti i bisogni, persino al bisogno di Dio — ogni idolatria è una risposta sbagliata al bisogno di Dio. Questo svuotamento-riempimento rappresenta il massimo sviluppo di quel primo “spirito del capitalismo” che leggeva l’accumulo di beni come benedizione di Dio. Ma con una novità decisiva rappresentata dallo spostamento del baricentro etico del capitalismo dalla sfera della produzione a quella del consumo. A essere “benedetto da Dio” non è più, come accadeva nell’antica etica calvinista, l’imprenditore-produttore, ma il consumatore, che è lodato e invidiato perché ha i mezzi per consumare. I predestinati sono diventati coloro che possono consumare i beni, non più quelli che li producono lavorando. Più consumo, più benedizione. La figura sacrale dell’imprenditore-costruttore ha così lasciato il posto al nuovo “sacerdote”: il manager, che è tanto più “benedetto” quanto più alto è il suo bonus e quindi il suo standard di consumo.
Come conseguenza di ciò, il lavoro è uscito di scena, relegato tra i ricordi un po’ nostalgici del passato e delle sue utopie. È diventato un mezzo per aumentare i consumi, grazie a una finanza sempre più amica del consumo e nemica del lavoro, dell’impresa e dell’imprenditore-lavoratore. Per il vecchio spirito calvinista il capitalismo, centrato attorno alla produzione e al lavoro, era ancora un capitalismo essenzialmente e naturalmente sociale. Lavorare e produrre sono azioni collettive, di cooperazione e mutualità. Il lavoro è il primo mattone delle comunità umane. Il consumo è invece sempre più un atto individuale, perdendo progressivamente quella dimensione sociale pur legata alla sfera economica.
Il passaggio dal lavoro al consumo è frutto anche di un’operazione sistematica di disistima di tutto ciò che sa di fatica, sudore, sacrificio. Il consumo ci piace molto perché è tutto e solo piacere: nessuna fatica, nessun dolore, nessun sacrificio. Così non stupisce che la nuova frontiera della battaglia civile si stia spostando dal “lavoro per tutti”, che era il grande ideale del XX secolo, al “consumo per tutti”, che sta diventando lo slogan del XXI, magari reso possibile grazie a un reddito minimo garantito per poter essere introdotti nel nuovo tempio. Più consumo, meno lavoro, più benedizione. Le idolatrie sono sempre economie di puro consumo. Il totem non lavora, e il lavoro dei suoi devoti vale solo in quanto orientato al consumo: all’offerta, al sacrificio. Più una cultura è idolatrica più disprezza il lavoro e adora il consumo e quella finanza che promette un culto perpetuo di solo consumo senza fatica.

Paura e rancore, questi sembrano i sentimenti che agitano la società italiana, un circolo vizioso che si autoalimenta, come uscirne fuori?

In questi giorni mi torna spesso in mente il grande romanzo di Dino Buzzati, Il deserto dei tartari, dove Drogo e i suoi soldati per anni attendevano racchiusi nel loro forte un nemico che non arrivava mai, e nell’attesa di questo nemico scoppiavano conflitti e nevrosi all’interno del forte. Siamo stati capaci di costruire anche noi dei nemici immaginari che stanno producendo molti conflitti e molti rancori tra i cittadini dei paesi europei. Questa fase della nostra storia sarà ricordata fra i momenti peggiori del continente europeo perché da almeno quattro secoli, cioè dall’inizio delle guerre di religione, l’Europa aveva imparato che la paura e la costruzione ideologica del nemico producono solo guerre e genocidi. Se non reagiamo subito, insieme e con grande energia (inclusa l’energia intellettuale e culturale), nel giro di pochi anni regrediremo alle guerre fra Signorie e staterelli dell’inizio dell’era moderna, che precedettero la nascita degli stati nazionali. Il rilancio di un grande progetto europeo è dunque essenziale.

La prudenza della Chiesa italiana sembra miopia (Zamagni) o stanchezza (De Rita) di fronte all’urgenza di organizzare una qualche forma di presa di coscienza e di appello all’azione, è d’accordo sulla critica dei suoi illustri colleghi? E quale può essere il ruolo dei laici in una sinodalità “dal basso”?

I disturbi della vista e la stanchezza sono sintomi dell’invecchiamento. La Chiesa cattolica italiana, come la Chiesa europea e di altri paesi occidentali, vive un progressivo invecchiamento, che sta avvenendo parallelamente a un’accelerazione della storia che amplifica gli effetti di questo invecchiamento. Ci sarebbe bisogno di un grande, sistematico e ambizioso “progetto giovani”, avviato da Papa Francesco e dal Sinodo sui giovani, che non può limitarsi alle giornate dei giovani o alla tradizionale pastorale giovanile, ma che dovrebbe partire prendendo molto più sul serio il “pensiero” dei giovani e dei ragazzi, che hanno un loro punto di vista sul mondo, sul pianeta, sulla povertà, sull’ecologia — il movimento di Greta è un punto di non ritorno, occorre saperlo interpretare. I giovani vanno ascoltati, presi sul serio, responsabilizzati, interpellati, posti nei luoghi di governo.
Inoltre, il dopo-Concilio ha conosciuto una autentica primavera di nuovi movimenti e comunità, che ha riportato una stagione carismatica in tutta la Chiesa cattolica. Questa spinta collettiva si è in buona parte spenta. I grandi movimenti soffrono tutti della mancanza di nuove vocazioni e di innovazioni, e il XXI secolo non sembra generarne di nuove.
Una buona lettura del tempo che vive la Chiesa cattolica ci proviene dal grande profeta Geremia. Nel suo libro c’è un episodio che ha molto da dirci in questa età di passaggi d’epoca, che investono la società, l’economia, le religioni e i movimenti spirituali nati nel Novecento. Geremia profetizza a Gerusalemme prima e durante l’evento più importante e devastante della storia di Israele: la conquista della città da parte dei babilonesi, la distruzione del tempio e quindi la deportazione in Babilonia. Una prova soprattutto religiosa, perché fu difficilissimo per il popolo ebraico capire il senso di quella tragedia, capire che il loro Dio diverso, YHWH, poteva essere vero anche se sconfitto. Geremia continuava a ripetere la sua profezia, ma, mentre annunciava al suo popolo la resa, con i babilonesi ormai alle porte, Geremia decide di recarsi nel suo villaggio natale (Anatot) per acquistare un terreno: «Stesi il documento del contratto, lo sigillai, chiamai i testimoni e pesai l’argento sulla stadera» (Geremia 32,10). Gerusalemme stava per capitolare; tutti fuggivano lasciando case e terreni abbandonati. Il profeta, invece, fa un atto che va nella direzione opposta di quella distruzione: compra un pezzo di quella terra che sta per essere devastata e conquistata. Vede attuarsi quella fine che aveva profetizzato e che gli era costata persecuzioni, torture e carcere, ma insieme fa un gesto che dice futuro, perché, dice, «Ancora si compreranno case, campi e vigne in questo paese» (32,15). E quindi con i fatti ripete: è finita una storia ma non è finita la storia. È finita la grande storia del regno di Davide, iniziata con la terra promessa conquistata e occupata. Questa storia, dice il profeta, è finita, e non si torna indietro. Ma, aggiunge: non è finita la nostra storia, perché un resto tornerà. E questo resto che tornerà continuerà la stessa storia, purificata dall’esperienza dell’esilio.
Questo episodio è utile, a mio avviso, per comprendere il nostro tempo. In questa fase di passaggio di epoca dovremmo imitare Geremia: guardare con realismo il presente, non illuderci né illudere rimpiangendo o ricordando il grande passato della cristianità; e poi comprare un campo, fare nuove opere e istituzioni per dire speranza e fede nel futuro. Oggi servirebbero nuove università, scuole, opere concrete. La fede non è faccenda di idee. Troppe volte nel Novecento, anche dentro movimenti e comunità, i giovani e le persone hanno incontrato una ideologia (c’è un’affinità tra ideologia e idolatria), non la fede biblica. La fede la si incontra nella vita concreta e semplice, toccando la terra, le cose, le persone, i poveri. E quindi con opere concrete, che oggi mancano molto, troppo, nella Chiesa cattolica. Istituzioni nuove, giovani, fatte con e insieme ai giovani, con e insieme ai poveri — è sempre in mezzo ai poveri dove si impara a risorgere. Nei periodi delle sue molte crisi epocali, la Chiesa è risorta generando opere: i Monti di pietà del Quattrocento, che risposero alle gravi crisi della povertà urbana; le migliaia di opere educative e sanitarie dei carismi sociali dal Seicento al Novecento, le cooperative, le banche, le università nel Novecento. E oggi? E noi?
E infine ripetere insieme: è finita una storia, non è finita la storia. Un piccolo resto continuerà la storia di ieri. E sarà ancora più bello.

(Intervista di Andrea Monda, da L’Osservatore Romano, 28 maggio 2019)