Recuperare il legame sociale per una città solidale

Vi proponiamo il contributo del prof. Tommaso Greco, docente di Filosofia del Diritto nella nostra Università, ad un convegno della Diocesi di Milano, che si è svolto lo scorso 18 febbraio. L’intervento è incentrato sugli ingredienti del “legame sociale”, che costituiscono la necessaria premessa alla realizzazione di una “città solidale”.
 
A cosa pensiamo quando parliamo di città solidale? Personalmente, direi che una città solidale è innanzi tutto una città accogliente; una città che non respinge chi tenta di entrarvi, perché è consapevole che essa è il luogo — cito il Cardinal Martini — «di una identità che si ricostruisce continuamente a partire dal nuovo, dal diverso, e la sua natura incarna il coordinamento delle due tensioni che arricchiscono e rallegrano la vita dell’uomo: la fatica dell’apertura e la dolcezza del riconoscimento».

Una città solidale è in secondo luogo una città che non tollera le ingiustizie; nella quale cioè non è considerato ‘normale’ che qualcuno possa essere privo del minimo necessario per vivere, che qualcuno possa essere sfruttato da qualcun altro, che qualcuno possa essere in balìa della violenza.

Una città solidale, infine, è una città pacifica, che conosce l’autentica dimensione della pace; non nel senso che sia del tutto priva di conflitti, ma nel senso che sa orientare i suoi conflitti verso la dimensione della convivenza e della condivisione.

Ma forse, ancor prima di chiederci cosa sia una città solidale, occorrerebbe chiedersi cosa sia una città. Forse siamo troppo abituati a pensare alla città riferendoci al Sindaco e alla amministrazione comunale, o tutt’al più alla rete allargata delle istituzioni. Ma la città è innanzi tutto un luogo e delle persone: uno spazio più o meno esteso (ci sono le città piccole e le megalopoli), ma sempre fatto di case, di palazzi e di strade, di giardini, di spazi organizzati o abbandonati. E questi spazi sono abitati, attraversati, vissuti da uomini e donne, bambini e anziani, persone che a vario titolo e per varie esigenze si trovano in essi.

Ecco: se pensiamo alla città come fatta di spazi e di persone possiamo capire perché il legame sociale ha a che fare con la costruzione di una città solidale: assumere il punto di vista del legame sociale chiama in causa non soltanto le istituzioni ma ciascuno di noi; chiama in causa la città nel suo complesso e non soltanto i suoi rappresentanti ufficiali.

 

Una rivoluzione dello sguardo

Per capire cosa comporti l’assumere il punto di vista del legame sociale occorre predisporsi a una specie di rivoluzione dello sguardo, a cominciare dallo sguardo su noi stessi.

Siamo infatti abituati a pensarci come individui. Grazie a questa concezione tipicamente moderna, l’uomo ha pensato a se stesso come a un universo che contiene già tutto il necessario. Facciamo fatica quindi a pensarci come esseri-in-relazione. Certo, sappiamo che abbiamo a che fare con altri fin dalla nostra nascita, nella nostra crescita, nel nostro lavoro. Ma è come se questa presenza fosse occasionale, accidentale, non necessaria. È come se questa presenza “si aggiungesse” a ciò che noi già siamo e quindi non rappresenti un qualcosa che ci costituisce.

Riprendere il discorso sul legame sociale vuol dire dunque, innanzi tutto, cominciare a guardare noi stessi come costitutivamente e necessariamente legati agli altri esseri. Ma affermare che siamo originariamente legati e non separati vuol dire ripensare radicalmente alcune delle nostre convinzioni più ferme.

Ad esempio: vuol dire prima di tutto rimettere in gioco una parola troppo spesso criticata, se non condannata: quella di comunità.

È una parola ‘delicata’, me ne rendo conto, a causa delle aberrazioni che in suo nome sono state compiute nella storia e soprattutto in quella novecentesca. Ancora oggi, quando la si invoca politicamente, lo si fa per sostenere le ragioni della chiusura etnica, dell’identificazione con la terra e col sangue, della discriminazione per il diverso. Ma tutto questo rappresenta la negazione della comunità. Come è stato spiegato in maniera autorevole e convincente dal filosofo Roberto Esposito, comunità viene da cum munus: ciò che tiene insieme la comunità non è una comune appartenenza, non è la condivisione di una proprietà, ma una reciprocità di doveri.

La comunità indica una unione che rimane ferma nonostante tutte le separazioni possibili. Essa ci chiama dall’interno della società, non perché ci chieda di essere costruita artificialmente (come avviene nei tanti casi di quelle che Bauman chiamava comunità ‘attaccapanno’), ma perché essa c’è e perché è in essa che il nostro legame originario si realizza nella sua pienezza.

In secondo luogo, un discorso sul legame sociale non può non invocare il “grande dimenticato” del discorso politico moderno: il principio della fraternità.

Siamo abituati a pensare alla triade dei valori politici moderni — libertà, uguaglianza, fraternità — secondo un ordine che mette la fraternità alla fine e non all’inizio. Talmente alla fine che abbiamo pensato di farne a meno, dato che libertà e uguaglianza ci davano (sembravano darci) tutte le risposte di cui avevamo bisogno. E tuttavia, col passare del tempo e soprattutto negli ultimi decenni, ci si è resi conto che quel binomio non bastava; e non bastava perché l’individuo al quale venivano garantiti libertà e diritti non solo era spesso un individuo “in crisi”, ma era anche un individuo talmente rinchiuso in se stesso da mettere in crisi anche le istituzioni chiamate a garantire i diritti e le libertà.

Ma nel momento in cui, sotto diversi profili, viene riscoperto il noi, bisogna evitare l’errore di pensare la fraternità come un’ “aggiunta”. Essa, invece, acquista il suo significato più pieno soltanto se la si mette all’inizio, come qualcosa di originario. Occorre pensare alla fraternità come ad un qualcosa che dà fondamento e significato alla libertà e alla uguaglianza, come il loro presupposto, piuttosto che come al loro (impossibile) risultato.

Cosa possa essere una libertà senza fraternità lo vediamo nelle odierne discussioni sulla sicurezza: una libertà intesa individualisticamente, una libertà dell’individuo e per l’individuo è una libertà che separa, una libertà che ha bisogno di muri. Ma quando ci si mette dietro i muri non si fa altro che vivere nella paura. La paura alza i muri, ma i muri custodiscono la paura, non generano affatto la sicurezza in nome della quale vengono innalzati. Anche la libertà si perde dentro i muri che abbiamo innalzato per difenderla (le cronache di questi giorni ce ne danno continua conferma: quanto più la “fortezza” si chiude e tanto più rigorosi dovranno essere i suoi controlli all’interno).

Una libertà insieme, invece, vale a dire una libertà condivisa perché fraterna, è una libertà che libera energie e sicurezza; è una libertà che ravviva gli spazi e li rende più sicuri di quanto non possano fare muri e telecamere. Pensare la libertà a partire dalla fraternità vuol dire questo, in sostanza: che la mia libertà non è un’arma da puntare contro l’altro, ma una occasione per incontrare l’altro e condividere un’esperienza.

Non diverso — ma se mai rafforzato — appare il legame tra fraternità e uguaglianza. Qui va ribadito che non è l’uguaglianza a produrre la fraternità, ma è semmai il contrario. Se riconosciamo che siamo uguali, o che dobbiamo essere uguali, è perché riconosciamo nell’altro il fratello, il simile. Finché non avremo compiuto questo riconoscimento, finché non avremo messo in moto il nostro sentimento di fratellanza, non saremo in grado di stabilire criteri per la parità di trattamento. Quando si è pensato il contrario, che bastasse cioè garantire condizioni di uguaglianza meramente esterne, si è ottenuto il risultato di acuire divisioni e conflitti, talora anche sanguinosi. Una uguaglianza non fraterna — ce lo descrive bene il paradigma elaborato dal filosofo Thomas Hobbes — produce una competizione, che speso degenera nell’astio e nell’odio.

 

L’attenzione e la cura

Sul piano dell’azione concreta, un discorso come questo si traduce innanzi tutto in una pratica alla quale dobbiamo abituarci (o riabituarci): quella di dare attenzione a chi ci sta di fronte. Non si tratta di una pratica semplice o scontata, meno che mai meccanica. Dare attenzione significa qualcosa di più di “guardare” verso l’altro; significa “vedere” l’altro nella sua particolarità, nel suo bisogno, nella condizione nella quale egli è. Un atteggiamento che possiamo reimparare soltanto con un lungo e faticoso esercizio che ci aiuti ad uscire da noi stessi. Magari cominciando a puntare nuovamente il nostro sguardo verso chi ci sta di fronte o ci attraversa la strada, distogliendolo dallo schermo che è diventato il nostro principale compagno di vita (ricordate il film Wall-E? Ci siamo già dentro).

L’attenzione, quando è vera, conduce inevitabilmente alla cura, verso i luoghi e verso le persone. Dico anche verso i luoghi, e non solo verso le persone, perché i luoghi sono fondamentali anche per la cura delle persone e dei legami. Lo sappiamo e lo mettiamo in pratica quando cerchiamo di tenere in ordine gli spazi delle nostre case; ma lo pensiamo meno quando invece si tratta di tenere in ordine gli spazi pubblici e condivisi. Mentre invece dovremmo anche qui invertire i nostri sforzi, e capire che uno spazio pubblico ben curato, una bella piazza, una bella strada, un marciapiede in ordine sono la condizione primaria dello star bene con gli altri e con noi stessi, anche quando ci rifugiamo nelle nostre case. Bisogna tornare a pensare gli spazi come luoghi da abitare e non solo da attraversare; bisogna “recuperare la curva” che costringe a rallentare, e non farsi dominare soltanto dalle linee rette dello nostre traiettorie. Anche perché — sarà bene ricordarlo — nonostante il nostro essere «globali», il nostro corpo e la nostra vita si ràdicano nel locale, e del locale, dunque, non possiamo disinteressarci. Per quanto una parte importante del nostro tempo la trascorriamo a intrattenere relazioni sui social network, come ha ricordato Howard Gardner «le nostre interazioni continueranno prevalentemente a svolgersi con quelli che ci vivono accanto».

Tutte queste dimensioni — “comunità” “fraternità” “attenzione” “cura”, “fiducia” — possono entrare nella realtà soltanto se facciamo un ultimo sforzo per uscire dai paradigmi che governano le nostre vite. Si tratta di comprendere che nel pensare a noi in relazione agli altri, se assumiamo la prospettiva del legame sociale la priorità spetta ai doveri e non ai diritti.

È un punto delicato, anche questo. La parola diritti si porta dietro troppi significati positivi per poterla abbandonare, mentre la parola doveri sa di predica e di cose negative. Ma è un errore continuare a pensarla in questo modo. Non solo perché ogni diritto può esistere soltanto in quanto ci siano dei doveri corrispondenti (si tratta di un punto tra i più discussi nella teoria giuridica contemporanea, sul quale non è il caso di soffermarsi in questa sede); ma soprattutto perché non è affatto vero che i doveri ci riportano ai nostri obblighi verso lo stato e quindi puzzano di ‘militare’ e di ‘tasse’. I nostri primi doveri  sono verso coloro che ci stanno accanto, verso coloro con cui condividiamo le nostre giornate: sono doveri orizzontali e non verticali.

Poiché i doveri ci chiedono necessariamente di esporci verso l’altro, laddove invece i diritti ci chiudono spesso dentro noi stessi, ritrovare il senso dei doveri è essenziale per ogni discorso sulla solidarietà. Perciò, il nostro primo dovere è probabilmente quello di ridare dignità a coloro che compiono i propri doveri in un paese che tende a trascurarli. A meritare il nostro rispetto sono coloro che si prendono cura dei luoghi e delle persone, coloro che avendo attenzione per tutto ciò che favorisce i legami tra le persone si fanno costruttori di una città solidale. Troppo spesso invece concediamo il nostro rispetto a coloro che distruggono la città, rendendo difficili i legami e impossibile la solidarietà. Il Cardinal Martini, con il quale ho cominciato, ci offre adeguate parole di chiusura: «compito culturale urgente è quello di innescare un movimento di restituzione di stima sociale e di prestigio al comportamento onesto e altruistico, anche se austero e povero […] rivedendo magari, se del caso, i criteri con i quali la società — e magari anche la Chiesa — concedono favore e attenzione, criteri che troppo spesso premiano i potenti di questo mondo».