Una bancarotta spirituale

Il 26 maggio scorso, presso la Fondazione Ambrosianeum di Milano, Mons. Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo, ha tenuto il discorso commemorativo in occasione dell’anniversario della morte del venerabile Giuseppe Lazzati. Riportiamo ampi stralci del suo intervento.

Sulla terza pagina di Repubblica del 10 maggio scorso ho trovato un articolo che illumina le profondità della crisi che non solo l’Italia, ma l’intero Occidente sta vivendo.

L’articolo del quotidiano riporta una pagina tratta dal libro del monaco trappista – Thomas Merton – morto nel 1968, punto di riferimento per intere generazioni. Un uomo di grande spessore spirituale, oltre che «grande intellettuale», a tal punto che la pagina del noto quotidiano – titolata “La vera bancarotta è quella spirituale. Perdere l’anima” – registra che le sue riflessioni sembrano non risentire affatto del tempo trascorso: «Era lo scorso secolo. Ma sembra oggi». Annotazione preziosa, segno confortante che le cose essenziali, non possono essere mai del tutto cancellate dagli occhi distratti di chi vive in un’epoca assuefatta a consumare gli attimi fuggenti.

Scrive Merton: «Generazioni su generazioni di uomini hanno a tal punto perduto il senso di una vita interiore, si sono talmente isolati dalle loro profondità spirituali (…), che ora noi siamo quasi incapaci di godere di una qualsivoglia pace, quiete, stabilità interiore. Gli uomini sono arrivati a vivere esclusivamente sulla superficie del loro essere (…). Siamo lasciati in balìa di stimoli esterni e la stimolazione è arrivata addirittura a prendere il posto che, una volta, era occupato dal pensiero, dalla riflessione e dalla conoscenza».

Travolti dall’emotività e pilotati da chi ha il potere di gestirla ciberneticamente a causa della sempre più grave mancanza di capacità critica; avviluppati dal «laccio di una bramosia insensata e funesta» (1Tm 6,9) che atrofizza l’intelligenza e il discernimento, incapaci di scorgere il senso più profondo delle cose, «l’essenziale invisibile agli occhi» (Antoine de Saint Exupèry), inabili ormai alla contemplazione naturale, materializzati e resi schiavi dalle cose, gli uomini e le donne conoscono la notte dello spirito e, se vogliamo dirla con Dossetti, «la notte delle persone». Si perde il “con-essere”, il senso comunitario della vita, la corresponsabilità nella costruzione della città degli uomini. Emerge l’io voraginoso o, tutt’al più, un senso soffocante dell’appartenenza al gruppo-clan e la rivendicazione di meri interessi privati o di parte. Si vive dentro la cronaca ma fuori dalla storia.

In occasione dell’ottavo anniversario della morte di Giuseppe Lazzati, il 18 maggio 1994, proprio Dossetti pronunciò a Milano quello che resta il suo discorso più conosciuto: «“Sentinella, quanto resta della notte?” (Is 21,1)».

La sentinella è consapevole che la notte è notte, tuttavia non rimpiange il giorno passato; è protesa in un durevole atteggiamento vigile e, senza illudersi in un immediato passaggio dalle tenebre alla luce, riesce a cogliere le prime luci dell’alba. Questa immagine biblica è un monito per i nostri giorni, a saper vigilare, a non lasciare che la nostra capacità critica si smorzi, ripiegando nostalgicamente sul passato, ma a mantenere la lucidità necessaria per riconoscere i segni dell’aurora.

Quella di Lazzati è la testimonianza di un uomo, discepolo di Cristo, e di un ecclesiastico – secondo l’eccezione delubachiana, di «uomo di chiesa, l’uomo della Chiesa, della comunità cristiana»[1] – che conserva il senso della storia e dell’impegno in essa a partire dalla custodia di quella che, sia Merton che Dossetti, chiamano, «vita interiore», «uomo interiore», «primato dell’interiore». E, a scanso di equivoci, nessuno di questi grandi intellettuali cristiani può essere considerato un venditore esaltato di utopie; non sono stati certamente uomini alienati e alienanti dalla realtà della vita, della storia e della città degli uomini e dalla vita della Chiesa.

Il modello di laicità che la figura di Giuseppe Lazzati testimonia si basa su una costante e solida cura interiore – preghiera e formazione – che non si distingue né si separa dalla dimensione mondana e secolare. E per questo fu un ermeneuta della storia e una sentinella capace di scorgere l’alba sopportando – nel significato biblico di hypomoné (parola che contiene l’idea di «rimanere sotto» [hypó] per sostenere, ma che comporta comunque una sottomissione) – il buio della notte di quella sua giornata umana che conobbe la tragedia delle due guerre mondiali, la ricostruzione post bellica e l’incipit del trapasso d’epoca che è sotto i nostri occhi.

Nel ripensare a quali fossero le cause profonde della notte italiana, in quegli anni ’90, e riprendendo il pensiero di Lazzati di dieci anni prima, Dossetti individuava «una porzione troppo scarsa di battezzati consapevoli del loro battesimo rispetto alla maggioranza inconsapevole. Ancora, l’insufficienza delle comunità che dovrebbero formarli; lo sviamento e la perdita di senso dei cattolici impegnati in politica, che non possono adempiere il loro compito proprio di riordinare le realtà temporali in modo conforme all’evangelo per la mancanza di vero spirito di disinteresse e soprattutto di una cultura modernamente adeguata […]; e, infine, l’immaturità del rapporto laici-clero, il quale non tanto deve guidare dall’esterno il laicato, ma proporsi più decisamente il compito della formazione delle coscienze, non a una soggezione passiva o a una semplice religiosità, ma a un cristianesimo profondo e autentico e quindi a un’alta eticità privata e pubblica».[2]

Un’analisi che scuote, di impressionante attualità, accompagnata dall’invito ai battezzati a perseguire l’assoluto primato dell’uomo interiore.[3] Come afferma Dossetti, «inquadrandolo nel pensiero di Lazzati – soprattutto degli anni in cui cominciava più direttamente a pensare alla Città dell’uomo –, si dovrebbe dire che i battezzati consapevoli devono percorrere un cammino inverso a quello degli ultimi vent’anni, cioè mirare non a una presenza dei cristiani nelle realtà temporali e alla loro consistenza numerica e al loro peso politico, ma a una ricostruzione delle coscienze e del loro peso interiore, che potrà poi, per intima coerenza e adeguato sviluppo creativo, esprimersi con un peso culturale e finalmente sociale e politico».[4]

Su Cronache sociali (1947-1951), il periodico di riflessione politica, culturale ed economica, espressione del gruppo riunito attorno a Dossetti, Lazzati e Glisenti, uno strumento per indirizzare la politica della ricostruzione della nazione verso frontiere avanzate e per sollecitare un impegno profondo verso una riforma sociale del paese, così spiegava a tal proposito lo stesso Lazzati in un articolo intitolato “Esigenze cristiane in politica”: «Per lo più il cristiano si trova immerso in quella concezione machiavellica dissociante la politica dall’etica che sembra fatta per ogni successo e facilmente tenta di ricercare almeno una conciliazione. Sa il cristiano che nulla può compromettere il suo efficiente sforzo di rinnovamento quanto l’accettare tale tentazione o il venire a patti con essa e, pur agendo con senso vivo di realismo che è proprio dell’etica politica avente nel tempo, e non nell’eterno come la persona, il suo fine immediato, la respingerà con forza, facendo ricorso a quell’eroismo interiore che fondi il tipo di santità quale l’età nostra caratteristicamente richiede».[5]

(…) Guardare a Lazzati come uomo dello Spirito che ci indica di rimanere nel mondo da cristiani che perseguono l’assoluto primato dell’uomo interiore – è questa a mio avviso l’attualità del suo messaggio e della sua testimonianza –, significa rendersi conto finalmente di quanto Giuseppe Dossetti sottolineava ripercorrendo la vita del rettore della Cattolica: «Ma per questo ci vogliono dei battezzati formati ad essere e ad agire nel tempo continuamente guardando all’ultratemporale, cioè abituati a scrutare la storia, ma nella luce del metastorico, dell’escatologia. Purtroppo siamo invece più spesso abituati al contrario, cioè ad immergerci continuamente e totalmente nella storia, anzi, nella cronaca: la nostra miopia ci fa pensare all’oggi o al massimo al domani (sempre egoistico), non oltre, in una reale dilatazione di spirito al di là dell’io».[6]

Lazzati ci chiede di «porci come obiettivo urgente e categorico di formare le coscienze dei cristiani (almeno di quelli che vorrebbero essere consapevoli e coerenti) per edificare in loro un uomo interiore compiuto quanto all’etica pubblica, nelle dimensioni della veracità, della lealtà, della fortezza e della giustizia».[7]

Quella attuale in Occidente è una crisi che oltremodo può diventare motivo di discernimento e foriera di una rinnovata e audace condivisione del Vangelo in questo nostro complesso ma promettente tempo.

«Solo una Chiesa e dei cristiani che vivano in una grande tensione escatologica possono sottrarre i nostri contemporanei a questa schiavitù alienante delle cose intermedie e trascinare sempre di più a guardare ciò che ci sta davanti, dimenticando le cose che dobbiamo lasciare dietro di noi (cf. Fil 3,13) per arrivare a un’autentica libertà e a una più acuta intelligenza del reale».[8]

Queste parole di Dossetti che rilegge la figura di Lazzati come sentinella, non sono solo condivisibili, ma ancor più illuminanti quando si cercano le manifestazioni creative delle prime luci dell’alba nella bancarotta della nostra realtà sociale e politica.

Alimentare la profondità spirituale dei battezzati, è la via da percorrere per incidere nell’animazione della città secolare, rafforzati dalla certa speranza della Città celeste. Potrebbe essere questa l’eredità più bella di Giuseppe Lazzati. A maggior ragione se emergono cristiani adulti cresciuti quanto all’uomo interiore che possono incidere positivamente nella vita delle nuove generazioni.

Ogni “pivello”, se incontra uomini spirituali, uomini di provata interiorità come Lazzati, potrà essere messo nella condizione di rispondere creativamente alla comune chiamata ad essere un responsabile e creativo operaio nella costruzione della Città dell’uomo, a misura d’uomo.

Un cantiere sempre aperto che non può non vederci suoi gioiosi, umili e audaci operai.

 

(leggi la versione integrale dell’intervento di Mons. Lorefice su SettimanaNews).

 


[1] Cf. H. De Lubac, Meditazione sulla Chiesa, Milano 1979, 165.
[2] G. Dossetti, Sentinella, Milano 18 maggio 1994, Corriere della Sera, 101-102.
[3] «Uomo interiore» è un lemma caro all’apostolo Paolo. Lo si ritrova in diverse sue lettere. Per esempio in 2Cor 4,16-18 scrive: «Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili». È ancora in Ef 3,14-19: «piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore. Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio».
[4] G. Dossetti, Sentinella, Milano 18 maggio 1994, Corriere della Sera, 105.
[5] G. Lazzati, Esigenze cristiane in politica, in Cronache sociali 1947/4.
[6] G. Dossetti, Sentinella, Milano 18 maggio 1994, Corriere della Sera, p. 110.
[7] G. Dossetti, Sentinella, Milano 18 maggio 1994, Corriere della Sera, p. 108.
[8] G. Dossetti, Discepolato, Bologna 20 febbraio 1993, Corriere della Sera, p. 63.