Welfare: dappertutto e da nessuna parte

L’articolo propone una riflessione di Flaviano Zandonai, segretario generale di Iris Network, intorno alle spinte riformatrici nel welfare attuale e ai movimenti generativi che stanno attraversando i contesti sociali e che sfidano il welfare tradizionale dei servizi. Si mettono in evidenza le caratteristiche dell’innovazione e le trasformazioni principali a cui il sistema è chiamato.

Una riforma mai attuata

“Riforma” è un termine ancora oggi caro agli addetti ai lavori del welfare, non solo se si tratta di pensioni e sanità (i pezzi forti in termini di spesa pubblica), ma anche per chi opera nel campo dei servizi sociali, educativi, assistenziali, dell’inclusione attiva. Un anelito più che comprensibile considerando che si tratta di un processo di innovazione sociale e istituzionale di medio periodo che ha coinvolto soprattutto amministrazioni pubbliche locali e terzo settore. Quarant’anni durante i quali azioni di advocacy e servizi sperimentali si sono via via strutturati in quel “sistema integrato di interventi e servizi sociali” che, non a caso, intitola la legge quadro n. 328/00 dove si sancisce l’esistenza, accanto al welfare state principalmente improntato sulla redistribuzione monetaria, di un welfare mix di attori e servizi organizzato e governato su scala locale.

Da lì in avanti, paradossalmente, questo sistema ha iniziato a incrinarsi per il convergere di diversi fattori di crisi: di natura istituzionale ed economica da una parte e, dall’altra, per effetto di trasformazioni profonde della società e dell’economia. Tra i primi si può ricordare il sostanziale fallimento dei progetti di riforma dello Stato che, seppur attraverso opzioni di politica diverse, miravano a rafforzare il potere dei “territori” nel declinare e cofinanziare l’offerta di servizi di welfare adeguandola alle loro peculiarità socioeconomiche.

Questo fallimento ha innescato un ulteriore “movimento franoso” che ha investito l’impianto di sussidiarietà verticale intorno al quale si articolava il meccanismo di redistribuzione delle risorse economiche, ma anche di gestione dei sistemi informativi, di presidio delle politiche e di cogestione dei servizi. Un indebolimento sistemico accelerato, da lì a qualche anno, dai primi segnali della crisi fiscale dello Stato che, in modo emblematico, si possono fare coincidere con l’azzeramento del fondo nazionale per le politiche sociali.

Una storia ben conosciuta alla quale si sommano limiti organizzativi e gestionali dovuti alla codifica del sistema di offerta e dei beneficiari assumendo come “unità di misura” prestazioni sociali sempre più specialistiche per consentire un’allocazione mirata delle risorse disponibili. Una progressiva “sterilizzazione” del welfare sociale, nato invece su presupposti ben diversi: centrato su bisogni multidimensionali, orientato ad avvalersi e a generare un mix di risorse, vocato all’empowerment delle persone e dei contesti.

 

Eppur si muove

Questa evoluzione del sistema dei servizi – plasticamente rappresentata dal florilegio di “tavoli” di programmazione e gestione monopolizzati dagli “operatori del settore” – ha acuito il divario con un contesto sociale ed economico spesso “letto” esclusivamente dal punto di vista dei bisogni, rendendo così difficoltoso cogliere nuove espressioni di vitalità oggi da più parti definite “generative”.

Ad esempio la disintermediazione dalle matrici culturali e dagli schemi di azione tipici della società civile organizzata tradizionale e il conseguente affermarsi di coalizioni temporanee di interessi che definiscono il carattere “collettivo” del loro agire misurandosi in termini di impatto generato piuttosto che di coerenza con sistemi valoriali affermati ex ante. E sul fronte economico l’emergere di buone pratiche sempre meno puntiformi di imprese, soprattutto di piccole e medie dimensioni attive nelle filiere forti del “made in Italy”, che riconoscono nella coesione sociale, e non nell’estrazione di valore, un fattore di competitività. Per questo investono su intangibili come il welfare e la cultura che solo in apparenza non sono “core business”, ma che in realtà rappresentano una componente strutturale della loro catena di produzione del valore.

Anche nel welfare la spinta riformatrice non si è quindi esaurita. All’impasse in sede istituzionale corrisponde infatti un nuovo processo di social innovation. Non si tratta di un semplice rimescolamento delle carte, ma di un mutamento sostanziale che, in sintesi, si realizza attraverso un dislocamento del welfare ad ampio raggio, nei luoghi di vita delle persone e delle comunità. Un sistema distribuito ad ampio raggio e su piccola scala: nel lavoro, in casa, nel quartiere, nei contesti ricreativi, culturali, sportivi, negli esercizi commerciali, ecc. Servizi e presidi di welfare sempre più incorporati (embedded) nei contesti più disparati: dalle imprese ai centri sportivi, dalle portinerie dei condomini, ai teatri e altri spazi ricreativi. In definitiva in altri servizi, attività, iniziative dove a riprendere consistenza, dopo anni, è la domanda più che l’offerta. Una domanda sempre meno “a sportello” e “a catalogo” perché guidata da esigenze legate a soddisfare aspirazioni oltre a necessità e quindi ad essere non solo serviti come portatori di bisogni ma coinvolti come portatori di risorse. I segnali di questo cambiamento sono diversi, di varia intensità e sinteticamente riferibili a passaggi di stato nel modo in cui si progettano, gestiscono e finanziano i servizi di welfare.

 

Quali sfide affrontare?

Rispetto a queste trasformazioni il welfare dei servizi si colloca in posizione ambivalente:

  • è ricco di competenze depositate nel tempo, ma è anche imbrigliato in routine gestionali e programmatorie;
  • è mediamente in grado di garantire standard qualitativi elevati, ma in un contesto di risorse pubbliche decrescenti e spesso allocate secondo criteri che parcellizzano la natura relazionale che invece sostanzia servizi “alla persona e alla comunità”;
  • è storicamente orientato all’innovazione ma non è ancora riuscito a far propri i vettori di cambiamento più “disruptive” come le tecnologie digitali che, secondo modalità fortemente differenziate e in qualche caso discutibili, sono comunque disegnate sull’utente e fanno leva su meccanismi di natura collaborativa.

Risolvere queste sfide richiede di elaborare e intraprendere una strategia di cambiamento a livello manageriale e, in senso lato, culturale volta a ricercare intenzionalmente una fertilizzazione orientata all’apprendimento con un sistema di welfare che, come si è evidenziato in precedenza, si è distribuito e incorporato non solo attraverso centri di servizio dedicati, ma nei luoghi di vita delle persone e delle comunità.

Un passaggio che chiama in causa i ruoli degli operatori, sempre meno prestatori di servizio e sempre più community manager; i modelli organizzativi, sempre meno come linea di produzione e sempre più come piattaforma che sa fare matching tra una domanda che cresce anche in termini di differenziazione e un’offerta che va oltre i confini organizzativi e che abilita anche i non specialisti come attori del welfare; gli assetti di governance che richiedono sempre più di aprirsi oltre i produttori, includendo una domanda sociale che spesso si manifesta in forma indistinta tra richiesta di soddisfare un bisogno puntuale e aspirazione a dar vita a nuovi modelli di partecipazione e convivenza sociale.

Due, fra i tanti, sono i banchi di prova rispetto ai quali sperimentare questa strategia. Il primo è il welfare aziendale, dove i servizi sociali “veri e propri” vengono collocati a stretto contatto, e spesso in posizione secondaria, rispetto a una vasta gamma di servizi di facilitazione della vita quotidiana (wellness, turismo, mobilità, cultura, ecc.) correndo il rischio di veder diluire il loro “valore aggiunto” in termini di risposta al bisogno e qualità dell’intervento. Il secondo è quello dei nuovi presidi comunitari: immobili rigenerati come strutture polifunzionali dove una nuova “cittadinanza attiva” svolge un ruolo non solo di rappresentanza e tutela di interessi, ma anche come attore di coproduzione di beni e servizi rispetto ai quali, anche qui, il welfare impatta in modo rilevante ma operando spesso “sotto copertura” rispetto ad altre attività. Sono segnali, seppur di diversa intensità, che indicano l’avvio di un nuovo “ciclo societario” dove il welfare, a differenza del passato, non sarà solo una derivazione, ma un motore di sviluppo, chiamato quindi non solo a redistribuire le risorse, più o meno consistenti, messe a disposizione per finalità di natura correttiva, ma a proporsi come veicolo di investimento per alimentare economie di coesione.

(da www.lombardiasociale.it)